La diffusione sempre più ampia dell’inquinamento acustico e le sue significative conseguenze sociali, economiche e sanitarie sono ormai un dato evidente.
Per studiare in che modo i suoni e i rumori vengano percepiti dall’essere umano e trasformati dal cervello in sensazioni, emozioni e pensieri, esiste una specifica disciplina dell’acustica: la psicoacustica.
In ambito medico e neuroscientifico, questa tecnica viene spesso sfruttata come supporto alle terapie tradizionali. L’ascolto di suoni a bassa frequenza, ad esempio, può favorire la produzione di serotonina e di altre sostanze neurochimiche legate al rilassamento, con possibili benefici per il benessere psicofisico complessivo di una persona.
L’“isolamento” di un suono, però, non produce sempre effetti positivi: in alcune circostanze può addirittura risultare dannoso. Ciò avviene quando un rumore viene percepito come particolarmente fastidioso pur non essendo, in termini di decibel, più intenso di altri. Questo fenomeno dipende dal fatto che tendiamo ad associare determinati suoni a esperienze negative e a mantenere ben salda questa associazione anche quando non è più realmente presente il rumore. Il cervello, infatti, può amplificare la sensazione di fastidio, fino a farci percepire il rumore anche non è “reale”.


